Accogliere
ac-cò-glie-re (io ac-còl-go)
Ricevere qualcuno o qualcosa; accettare attraverso una presunta forma latina: [accolligere], da [colligere] cogliere, raccogliere; a sua volta questo è composto da [co-] insieme e [lègere] raccogliere.
L'accoglienza è un'apertura: ciò che così viene raccolto o ricevuto viene fatto entrare - in una casa, in un gruppo, in sé stessi.
Accogliere vuol dire mettersi in gioco, e in questo esprime una sfumatura ulteriore rispetto al supremo buon costume dell'ospitalità - che appunto può essere anche solo un buon costume.
Chi accoglie rende partecipe di qualcosa di proprio, si offre, si spalanca verso l'altro diventando un tutt'uno con lui. E anche se l'accoglienza di un vecchio amico siciliano può parere aliena rispetto all'accoglienza del conoscente giapponese, rimangono il medesimo fenomeno, diverso solo perché diverse sono le persone e le culture e il loro modo di aprirsi, il loro modo di fare entrare.
Allora la mamma ti accoglierà con gioia incontenibile quando torni a casa; si accoglierà con ottimismo la novità sconcertante; un luogo accogliente inviterà a restare; si deciderà di accogliere in casa propria un trovatello senza futuro; la domanda carica di speranze verrà finalmente accolta.
Acusmatico
[a-cu-smà-ti-co]
Di suono che si sente senza che la sua origine sia visibile
dal francese: [acousmatique], aggettivo coniato dal compositore e musicologo francese Pierre Schaeffer intorno alla metà del secolo scorso, mutuato dal greco: [akousmatikoi], nome degli allievi di Pitagora che udivano in silenzio le sue lezioni senza vederlo, da [akousma] voce, suono.
Si dice che gli allievi ancora non iniziati ai segreti esoterici della sua dottrina seguissero le lezioni di Pitagora mentre questo parlava da dietro una tenda. Va da sé che loro dovevano ascoltare in assoluto silenzio. Questa immagine della voce che si ode senza che ne sia visibile la fonte dette a Schaeffer una suggestione con cui descrivere l'allora rampante fenomeno della musica ottenuta manipolando il suono, specie registrato - fenomeno che preluse alla musica composta per mezzo di computer e sintetizzatori. Lo strumento musicale scompare, resta la voce della musica.
Questo aggettivo si è però rivelato versatile, e ha travalicato il campo musicale: in effetti può essere impiegato in tutti i casi in cui sia udito un suono la cui origine non è visibile. È quindi acusmatica una voce al telefono, dato che la persona all'altro capo non si vede; è acusmatica la voce narrante di un film, presente ma non collocata spazialmente; e riposando nella stanza che dà sulla strada ci giunge il rumore acusmatico del traffico, con clacson e sirene persi in lontananza.
Rileviamo comunque che si tratta di una parola poco conosciuta e colorata di tecnicismo - e perciò difficilmente utilizzabile in maniera proficua. Ma esprime un concetto complesso con una sintesi straordinaria, e questo è pur sempre un pregio.
Alchimia
al-chi-mì-a
Scienza esoterica che studia la produzione della pietra filosofale; armonia; espediente, artificio dall'arabo: [al-kimiya] pietra filosofale, collegabile al greco [chymeia] mescolanza di liquidi - stessa radice di "chimica".
Un'arte che culmini nello squadernamento dei segreti della vita e nel potere di controllarli è per certo affascinante. Spesso si considerano gli antichi alchimisti come superstiziosi precursori dei chimici, ma in realtà l'obiettivo era molto diverso, e così pure i metodi di lavoro.
La pietra filosofale, la Grande Opera, riuscita dopo lunghe e complesse trasformazioni della materia e dello spirito dell'alchimista, schiude le porte della felicità onnisciente, della panacea, dell'elisir di lunga vita e, ovviamente, della trasmutazione dei metalli vili in oro. Che sia fuori di metafora o che invece sia un percorso simbolico, l'alchimia ha grandi tratti in comune con pratiche orientali come lo yoga: essa è innanzitutto lavoro su se stessi.
Da qui traiamo un carattere dell'attuale connotazione di armonia, di sintonia - mutuata dall'armonia degli elementi che si incontrano: l'alchimia con una persona, con una materia, con un'opera d'arte non è mai casuale, ma frutto di una rispondenza coltivata in se stessi.
Circa le accezioni di espediente ed artificio non dico: non rendono giustizia alla nobiltà della parola, ed hanno il piglio stolto del positivista anabolizzato.
Amore
a-mó-re
dal latino: [amare] che sta per [camare], dalla radice indoeuropea [ka] desiderare, amare. Un'etimologia difficilmente vera ma estremamente poetica vuole che derivi dal latino [a-mors], senza morte.
Parola arcinota, pronunciata tanto spesso come capita a poche. L'etimologia mette in luce l'archetipicità di questo sentimento: "amore" non deriva da altre, non è composta: la sua radice significa se stessa. Quasi non pare artificiale.
Altro paio di maniche è scegliere i sensi, i significati e il respiro che si vuole dare a questa parola - a questo sentimento. Naturalmente ha un'ottica soggettiva, e il tema sarebbe complicatissimo. Ma su una cosa si può concordare: tanto più ampio e consapevole e tanto più profondo e coltivato è il significato che gli diamo, tanto è meglio per la nostra intera vita.
Prevért scriveva: "La vita è una ciliegia/ la morte il nòcciolo/ l'amore il ciliegio".
Aiuto
a-iù-to
Opera che in un momento di difficoltà si presta o si riceve
dal latino: [adiutus], da [adiuvare] aiutare, composto di [ad] a e [iuvare] giovare.
In sé questa parola non contiene il momento di difficoltà, ma solo il giovamento - dato o ricevuto. È chiaro che però sia proprio il momento di difficoltà a far risaltare questo atto: non si parla di aiuto se un amico arriva a casa tua portando la cena, ma se è qualcosa che non ti potevi permettere, o che non avevi il tempo di fare, questa azione chiara risalta sullo scuro della situazione. Allora riesce come atto nobile, di alta umanità e di grande delicatezza: anche prestare il giusto aiuto non è facile, così come spesso non è facile accettarlo.
È un grido, una necessità urgente, un'offerta generosa. Un'esperienza strana perché vissuta - per una volta - dalla parte di chi riceve anziché dare, come un genitore invecchiato e ora bisognoso dell'assistenza del figlio. Trovarsi dalla parte dei bisognosi rende più consapevoli che non è facile lasciarsi aiutare e nemmeno imparare un poco di umiltà.
Archetipo
ar-chè-ti-po
Modello, prototipo
dal greco: [arche] principio, originale [typos] modello, esemplare.
L'archetipo è un modello, un'immagine prima. Ma a differenza delle altre immagini prime ha una più decisa connotazione temporale: l'archetipo è un esemplare primigenio che esiste da che mondo è mondo, atavicamente condiviso da ogni uomo all'interno di una cultura o perfino dell'intera specie. Così, ad esempio, l'archetipo della grande madre, che taglia trasversalmente l'umanità nello spazio e nel tempo in manifestazioni diverse - dalla Venere di Willendorf alla Vergine Maria.
Esistono così archetipi in filosofia (si pensi alle Idee platoniche) e poi in psicologia (in particolare se ne parla negli studi di Jung) e poi in filologia (per indicare il manoscritto originale cui ogni copia altra fa riferimento), fino alla mitologia, dove è l'insieme di flussi di pensiero e sentimento che uniformemente modellano i miti, e poi a tante tante altre discipline.
Associazione
as-so-cia-zió-ne
L'atto dell'associare; unione, aggregazione
dal latino: [associare], composto da [a] verso e [socius] compagno, alleato.
Così come è nelle azioni più quotidiane che si nasconde la virtù e il valore, è nelle parole più consuete che si nascondono le più intime cifre dell'umanità.
La nostra specie nasce nell'associazione - anzi, si può dire che l'associazione preesista alla nostra specie. L'idea che l'unione fa la forza, il comprendere come il reciproco sostegno, il comune scopo aiutino a sopravvivere e a vivere nel calore, è un concetto conficcato negli strati più antichi delle profondità perlacee del cervello. E forse è la prima crepa che spacca il monolitico essere fisico del mondo, aprendo alle prime forme di trascendenza, che frantuma le emozioni universali di paura, rabbia, disgusto, sorpresa e gioia in un universo di sentimenti complessi attraverso la concezione dell'altro, e dell'altrui sentire.
E se non è la politica a farci ben sperare per il futuro, sapere che invece la galassia associativa, in Italia, non ha uguali nel mondo, questo sì, pompa una speranza e un ottimismo dirompenti.
Le difficoltà si affrontano meglio se si sta insieme. Anche l'aiuto è più efficace se non è solitario, come mostra la mobilitazione di tante associazioni. A seguito del terremoto è nato in molti il bisogno di associarsi in varie forme, per reagire a quanto accaduto. Coloro che si associano sono convinti che - da questa vicenda - o si prova a uscirne insieme o si rischia di non uscirne affatto.
Questa è una "parola terremotata", frutto di una collaborazione con l'associazione LaCà, nata dopo il sisma in Emilia. Col loro aiuto cerchiamo di capire come alcune parole si sono trasformate dopo il terremoto e come si possono rinnovare. Il testo in corsivo è un loro diretto contributo.
Benedire
[be-ne-dì-re]
ant. benedicere
(benedìco; benedicévo, pop. benedìvo; benedìssi, benedìi; imperat. benedìci; in tutte le altre forme si coniuga comedìre)
v. tr.
1 Colmare di favori divini: Dio benedice il lavoro onesto
Che Dio ti benedica, formula di augurio affettuoso
Proteggere, colmare di grazie: la fortuna ha benedetto questa impresa
2 Invocare da Dio la benedizione per una persona o una cosa: il padre benedice il figlio
Implorare su qualcuno o su qualcosa la benedizione del cielo mediante determinate parole e particolari riti prescritti dalla Chiesa: b. i fedeli con un segno di croce; b. gli ulivi, le campane, una chiesa
fig., pop. Andare, mandare qualcuno o qualcosa a farsi benedire, andare, mandare al diavolo
3 Glorificare, esaltare Dio o i Santi: b. il Signore
4 estens. Lodare, celebrare, ricordare con gioia: benedico il giorno che t'ho incontrato
Esprimere riconoscenza: benedico la sua generosità
Casa
[cà-sa]
Abitazione, specie di un nucleo famigliare; famiglia; società
dal latino: [casa] capanna, casupola.
È un concetto di importanza capitale, che pesa su quelli di appartenenza, di identità.
La [casa] latina, diciamocelo, non è un gran che. È la capanna, un'abitazione modesta, dappoco. Ma fra tutte le parole latine che variamente descrivono un'abitazione, è stata questa ad avere in sorte, nella nostra lingua, il significato più completo che si può associare a questo oggetto. Un significato che non si ferma alla denotazione fisica di edificio, ma che invece vive nel connotato sentimentale, relazionale e spirituale. Certo, scientificamente, ci sono delle ragioni sociali, storiche e linguistiche per cui questa parola ha prevalso sulle altre per indicare, in generale, l'abitazione. Ma è bello soffermarsi a pensare questo: rispetto al maniero avito , residenza immobile di una stirpe da innumerevoli generazioni, rispetto alla villa, estro dell'architetto, continuamente comprata e venduta, rispetto al condominio, intreccio di storie in un contesto fisso, la capanna, la casupola, l'abitazione povera riesce forse meglio a trasmettere l'idea di un'abitazione vissuta, che viene allargata e modificata a seconda delle necessità della famiglia che la abita, adatta a seguirne plasticamente la vita. In quest'ottica l'oggetto-casa calza perfettamente sul concetto di identità, che continuamente cambia e si riassesta, pur rimanendo sempre la stessa.
Quando si pensa a "casa" non si pensa solo ad un edificio, si pensa ad un contesto vivente a cui sentiamo di appartenere, un porto a cui siamo ancorati da una questione identitaria, un posto del cuore: si può cambiare cambiare casa, ma "casa" non cambia.
Compassione
com-pas-sió-ne
dal latino: [cum] insieme [patior] soffro.
Nei secoli, la parola compassione prende forma sul concetto di pietà - una pietà che è quasi disprezzo. Eppure la sua radice, il significato originale dei suoi componenti è tanto più nobile, di respiro tanto più ampio. La compassione è la partecipazione alla sofferenza dell'altro. Non un sentimento di pena che va dall'alto in basso. Si parla di una comunione intima e difficilissima con un dolore che non nasce come proprio, ma che se percorsa porta ad un'unità ben più profonda e pura di ogni altro sentimento che leghi gli umani. E' la manifestazione di un tipo di amore incondizionato che strutturalmente non può chiedere niente in cambio.
Ed è la testa di ponte per una comunione autentica non solo di sofferenza, ma anche -e soprattutto- di gioia vitale, e di entusiasmo.
Condividere
Condividere
con-di-vì-de-re (io con-di vì-do)
SIGNIFICATO: Possedere insieme; partecipare insieme; offrire del proprio ad altri
ETIMOLOGIA: composto di con e dividere, a sua volta, incertamente, dal latino: dis separazione e videre vedere. Vedere separato.
PAROLA DELLE ORIGINI
Al di là della condivisione del bagno fra coinquilini, il condividere si svela una galassia complessa.
La condivisione può essere la partecipazione comune ad un progetto, una tensione d'insieme, un essere d'accordo, un'esperienza che affratella ed è vissuta a un tempo da più punti di vista diversi - e perciò più ricca, fertile di discernimento, di emozione comunicante.
Oggi questa parola surfa sulla cresta dell'onda grazie ai social network, in cui indica l'azione del pubblicare, del comunicare, del portare alla conoscenza dei propri amici un pensiero, un testo, una canzone, un video, un sito: meno intima ma più concreta, questa accezione potenzia il canale di una formazione culturale collettiva, in cui il condiviso è proposta, semina di informazione, mattone comune - canale fondamentale in ogni rapporto umano, condivisione che porta a condivisioni sempre più profonde.
Come quando conosci qualcuno, gli regali un libro, lui poi te ne dà un altro, poi discutete su qualcosa, e via e via passa il tempo, e prima che possiate rendervene conto siete diventati fratelli con ideologie rigogliose e progetti brillanti, su una strada vostra e pura che è davvero condivisa. E mica male, questo condividere.
Consapevolezza
con-sa-pe-vo-léz-za
Cognizione, presa di coscienza
derivato di [consapere], composto di [con] e [sapere].
Questa parola denota un fenomeno estremamente intimo, e di importanza cardinale. Non è un superficiale essere informati, né un semplice sapere - e si diparte anche dalla conoscenza, più intellettuale. La consapevolezza è una condizione in cui la cognizione di qualcosa si fa interiore, profonda, perfettamente armonizzata col resto della persona, in un uno coerente. È quel tipo di sapere che dà forma all'etica, alla condotta di vita, alla disciplina, rendendole autentiche.
La consapevolezza non si può inculcare: non è un dato o una nozione. È la costruzione originale del proprio modo di rapportarsi col mondo - in quanto sapere identitario, davvero capace di elevare una persona al di sopra dell'ignoranza e della piana informazione. È il caso della consapevolezza del rischio, che non frena ma rende accorti; della consapevolezza delle proprie capacità, che orienta ed entusiasma; della consapevolezza del dolore, che rende compassionevoli e gentili; della consapevolezza di essere amati, che rende invulnerabili.
Diventare consapevoli di quanto accaduto, di come siamo cambiati, di quale futuro ci sta davanti è un passo fondamentale nella direzione giusta. Chi è consapevole non subisce ma può affrontare e rielaborare. Consapevolezze condivise rendono possibile un agire comune. Per chi evita o non riesce ad affrontare un percorso di consapevolezza il terremoto rischia di trasformarsi in un passato che non passa.
Contemplare
con-tem-plà-re
Fissare lo sguardo e soprattutto il pensiero su qualcosa che suscita ammirazione, stupore, meraviglia.
dal latino: [con] per mezzo [templum] lo spazio del cielo.
Il sacerdote che a Roma interrogava gli dèi per conoscere il loro volere attraverso il volo degli uccelli, l'Augure, sollevava il lituo, il suo scettro, e con un gesto ampio, ieratico, circoscriveva la porzione di cielo che avrebbe osservato. Attraverso questa con-templazione giungeva a stabilire se le divinità gradivano o meno una scelta presa dagli uomini. In una vita che ci usura con la sua attività tesa al limite, alternata solo da ozi cerebralmente offline, l'atteggiamento contemplativo si atrofizza. Invece di dedicare a noi stessi la finestra aperta di uno spazio mentale sempre vigile e vòlto a meravigliarsi, a dire "Oh...", si rimbalza da un estremo all'altro - frenesia vegetazione, repressione esagerazione con la mente volatile mai puntata per contemplare. E' importante guardare le nuvole e fermarsi ad odorare i gelsomini. O anche soltanto fermarsi un attimo, durante la cena, magari una cena chiassosa, fra amici, e pensare che è bello esserci.
Dono
Ciò che si dà o riceve senza niente in cambio
derivato di [dare], di antica radice indoeuropea.
Le grandi ruote del mondo, si può dire, girano tutte l'una a spese di qualcun'altra - inesistente l'autarchia isolata. Ma la consapevolezza dell'interdipendenza di queste ruote può tradursi in un superamento della lotta per l'autoaffermazione, stando invece dalla parte di tutti, del bisogno e dell'affermazione di ognuno: il dono è questo.
Il dono, il donare - il dare -, schiude la base della reciprocità, uno scambio respirante, gratuito, che si apre al fuori da noi, fondamentale non solo a Natale o in qualche ricorrenza. Per donare serve coraggio (per questo ci si copre sotto le feste, per non parere stupidi a fare regali senza motivo), ma specie per donare ciò che non si può comprare col denaro, ciò che richiede tempo, energie, sentimento, ciò che davvero ci rende ricchi - e non sempre il dono viene compreso.
Ma nell'istante in cui questo avviene e veramente il dono diventa navicella di reciprocità, di alleanza, di amicizia, di tributo amorevole, è lì che la porta dell'altro si schiude - giusto la brevità di una fessura - e ci fa intendere che cosa l'altro sia, che cosa noi siamo insieme.
Emozione
e-mo-zio-ne
dal latino: e fuori moveo muovo, agito.
È il nesso fra un universo puramente interno e il mondo di tutti. È la manifestazione diretta dell'inconoscibile agitazione che è il nostro primo movente, il primo motore. È ciò che dissimulato, alterato, sofisticato, incompreso fuori di sé, genera i mostri dell'animo umano, che non conoscono compassione, complicità, partecipazione - e quindi, libertà. È il picco più potente dell'animo.
Energia
e-ner-gì-a
Forza, vigore; in fisica, capacità di un sistema di compiere lavoro
dal greco: [energheia], composto di [en] intensivo e [ergon] opera, azione.
È una parola che funge un po' da formula aperta per includere innumerevoli sfumature di forza e vigore; ma in sé non è un concetto vago o svolazzante, anzi. L'energia è la basilare attitudine a compiere un lavoro - anche se, come ci insegna la fisica, l'energia non si potrà tradurre perfettamente in lavoro, essendo inevitabile un certo grado di dissipazione. E questo, fuor di scienza, appare chiaro nell'esperienza di ognuno.
Che sia energia utile al funzionamento delle nostre macchine, o energia umana (fisica e psichica) utile alla vita, sembra un concetto che come pochi è in grado di ingombrarci la mente, di affamarci: la concentrazione, il risparmio, il rinnovamento dell'energia pare un'urgenza tutta volta alla conservazione di quel ritmo d'opera, di creazione, che sentiamo necessario alla vita, in cui troviamo un senso - capace di ricacciare via gli spettri della fatica, dell'inerzia, della paralisi. Perciò, davanti ad una simile minaccia, è idiota impiegare carbone e petrolio per produrre energia; perciò è idiota dissipare le proprie energie clacsonando in auto e covando rancori: ingurgitare vitamine non sarà d'aiuto.
Entusiasmo
en-tu-sià-smo
dal greco: [en] dentro [thèos] dio. Il dio dentro.
È una delle mie parole preferite in assoluto.
Quello dell'entusiasmo non è uno stato d'animo che si riduce ad una semplice eccitazione partecipe. È qualcosa di estremamente più profondo, potente, massiccio. È il risvegliarsi di una forza che ci invasa tramite la quale non c'è meta che non sia a portata di mano, non ostacolo che non possa essere abbattuto, non collettività che non ne possa essere travolta e coinvolta. È lo stato d'animo attivo, centrato e sorridente che schiude l'infinita realizzabilità dei sogni.
Fratello
fra-tèl-lo
dal latino: [frater], parallelo al sanscrito [bhrathar], derivante dalla radice [bhar-] sostenere, nutrire.
Che a sceglierli per noi sia il sangue o la vita, non importa: i fratelli sono persone legate da un patto profondo che non pronuncia il proprio nome e viene sempre rinnovato. E' un patto naturale antico e potente, che come la radice suggerisce, affonda in un sodalizio di sostentamento e crescita che è onorevole paradigma della vita stessa.
Il fratello, insomma, è quel punto d'appoggio che permette di muovere la terra e il cielo.
Genuino
ge-nu-ì-no
Naturale, autentico, schietto
derivato dal latino: [genu] ginocchio, dal rito con cui il figlio veniva riconosciuto dal padre prendendolo sulle ginocchia.
Nella Roma antica il nuovo nato doveva essere riconosciuto dal padre durante un rito preciso: il piccolo veniva deposto per terra ai piedi dell'uomo, che poteva sollevarlo e porlo sulle proprie ginocchia, riconoscendolo, o lasciarlo "esposto", senza quindi riconoscerlo. Un simile rito ha fatto sì che la radice di "genuino" venisse avvicinata a quella di "gignere" generare.
In questo senso il genuino è l'autentico, il non sofisticato, lo schietto: il figlio genuino è davvero figlio di proprio padre - lontano da sotterfugi e incertezze. Rileviamo che comunque l'insieme dei significati di questa parola è piuttosto nebuloso.
Diciamo che è una parola molto viva, a cui si tiene molto - ma il suo uso scriteriato ne offusca il senso. Infatti osserviamo che è in primis una parola pubblicitaria, per cui una merenda industriale viene venduta come genuina. La genuinità è una qualità del cibo che in generale si tende a rimarcare, anche se non indica qualcosa di preciso. Se dico che un cibo è biologico denoto qualcosa di specifico; se è genuino, no. Ma cerco di dire che è vero, che è fatto proprio come lo faresti tu, o tua nonna. È difficile pensare di usare questa parola senza rimanere agganciati a questo immaginario pubblicitario.
È vero, il genuino non si riferisce solo al cibo: anche una persona o un sentimento possono essere genuini. Ma in questo senso non è la parola più adottata - si preferiscono termini come schietto, autentico. L'immagine del padre che riconosce il figlio o del figlio che continua una linea di sangue non si attaglia con immediatezza al significato che oggi ha questa parola: in che senso una persona potrebbe essere genuina?
E si tratta di una situazione spiegabile, a sentire i dizionari etimologici: non è una parola che ha attraversato i secoli a partire da quel rito antico. È stata ripescata un paio di secoli fa dai vocabolari di latino.
Grazie
grà-zie
propriamente plurale di [grazia], dal latino: [gratia] dai significati variegatissimi, fra cui amicizia, favore, piacevolezza, leggiadria, gratuità, e non ultimo gratitudine; infatti a sua volta deriva da [gratus] grato.
Una mole di qualità e sentimenti positivi assolutamente fuori dal comune si concentra in questa parola assolutamente comunissima. Pronunciarla, anche sola, ha l'effetto proprio di sferrarla completamente in tutta la sua massa, svincolata, liberandola in ogni sua articolazione. Quando si pronuncia un grazie, davanti anche al gesto più minuto, perfino anche solo dinanzi all'intenzione, vi si appone un inestimabile marchio di valore, che nobilita oggetto e soggetto, un marchio intrecciato, complesso, consapevole - simbolo, segno e vessillo insieme di favore amicale, di bellezza e piacere, di gentile e autentica riconoscenza, insomma di quella gratitudine sentita che è propria di chi sa l'intima statura delle cose, l'altezza vertiginosa a cui quel valore, riconosciuto, si eleva.
Ma in fondo è solo un "grazie", no?
Intemerato
[in-te-me-rà-to]
Puro, onesto, incorrotto
dal latino: [intemeratus] inviolato, composto da [in-] non e dal participio passato di [temerare] profanare.
È una parola fine e rara, il cui uso tributa al concetto che denota - l'essere onesto, integro - un connotato aulico, di grazia profonda. L'intemerato si è conservato puro, non è stato toccato dalla corruzione o non le ha ceduto. Il nesso etimologico con la profanazione colora di sacro questa qualità, la eleva rispetto alla semplice onestà conferendole un'aura di perfezione, e fa sì che questa parola sia da usare con particolare proprietà. Anche perché non è molto conosciuta.
Può essere intemerato l'eroe da romanzo, o il leggendario pioniere dei diritti civili, o il nonno preferito: casi-limite in odore di santità. È ovviamente salvo l'uso ironico che si può fare di questa parola: potrà essere di intemerata lealtà il braccio destro del politico corrotto, il libertino potrà vantare una lussuria intemerata, e il cittadino intemerato darà fuoco ai cassonetti.
Intuire
in-tu-ì-re
dal latino: [in] dentro [tueri] guardare.
Esistono approdi a cui con le potenti macchine della ragione non si può arrivare. Possono aiutare, certo, ma nella comprensione dell'altro, nell'esercizio della fantasia, nell'afferrare se stessi, in questo e non solo serve un occhio diverso.
Non si tratta di un'ispirazione del momento, di un cogliere le cose al volo perché si è vispi, di un'illuminazione. E' invece uno sguardo presente e penetrante che non parla nero su bianco, una visione profonda e d'insieme, una vertigine estatica in cui sembra di cadere fuori da sé, lungo questo sguardo.
E' una via di conoscenza diversa e necessaria, come diverso e necessario è nuotare, in acqua - dove non si può ostinarsi a camminare.
Iugulatorio
[iu-gu-la-tò-rio]
Vessatorio, che strozza
da [iugulare], variante di [giugulare], dal latino: [iugulum] giugolo, ossia la fossetta alla base del collo, sopra lo sterno, che propriamente significava "clavicola", derivando da [iugum] giogo, dato che la clavicola ha la forma di un giogo.
La zona giugulare è una parte del corpo umano di delicatezza archetipica: nasconde i grandi vasi sanguigni che portano il sangue alla testa e lo riconducono poi nel torace, è esposta e non protetta. Invita il morso micidiale di predatori e vampiri, e anche solo un colpo o una forte stretta, qui, possono riuscire fatali.
È da questa immagine che prende le mosse il significato di "iugulatorio": una stretta al collo, prototipo di ogni oppressione, figurata o meno. Un accordo concluso per necessità potrà rivelarsi iugulatorio; sarà iugulatorio un impegno preso con leggerezza; e le richieste falsamente gentili di una persona potranno avere un intento iugulatorio.
Certo, non è una parola delle più comuni, ma la forza figurativa su cui può contare è davvero poderosa.
[Questa parola è a proposito di quel che affermiamo nella spiegazione dei trattamenti relativamente alle mani sulla gola...]
Libertà
li-ber-tà
Assenza di costrizioni
dal latino: [libertas] l'essere libero.
Le parole archetipiche sono spesso le più comuni e le più difficili - difficile scovarne gli etimi più profondi, trarne i significati più puri e completi.
La libertà, forse, si avvicina etimologicamente al piacere: libare, libidine; e anche alla fratellanza, alla famiglia: in latino i "liberi" sono i figli, e ancora oggi le liberalità sono i doni incondizionati. Anche in altre lingue è forse così: pensiamo al "freedom" inglese, così affine al "friend", all'amico, e al "Freiheit" tedesco, così affine alla "Friede", alla pace.
Quel che risulta trasparente, circa questo stato, è che la libertà è ben lontana dal pirata, dall'artista viaggiatore: non è un'erranza capricciosa e irresponsabile. La libertà sta in una trama complessa che involve interiorità e realtà esterna (ci son più vincoli in ognuno di noi che in cento dittature), pensiero, istruzione, espressione, l'ampiezza delle proprie possibilità e la stabilità della propria posizione, in un'asserzione, insomma, fluida, ma sempre rivolta al bene, al valore: niente ci fa sentire il cuore libero quanto la danza di una ballerina talentuosa, e i suoi movimenti liberi, liberi, non sono arbitrari o casuali, ma al contrario equilibrati, studiati e limatissimi.
Questo è ciò che ci racconta la Liberazione, il 25 aprile, che la libertà sono delle redini da tenere salde e da riprendersi, se ci scappano di mano o se i cattivi ce le tolgono, che la libertà sono delle statuizioni forti e precise che non tollerano deroghe (in alto la Costituzione), non lassismi indifferenti, che non c'è libertà fuori dalla libertà civile e che la libertà è uno stato di sforzo - come la vita -, uno sforzo titanico, fatale che tutti siamo chiamati ad esercitare per piacere nostro, per amore di chi ci è vicino, ma soprattutto perché è giusto e buono.
Dopotutto, quale è l'opposto della libertà? La cattiveria.
Meraviglia
me-ra-vì-glia
Sentimento di stupore destato da una cosa nuova, straordinaria, impensata
dal latino: [mirabilia] cose ammirevoli, da [mirari] guardare con meraviglia.
Lo stupore davanti ai bastioni del Sorapis, monte cucito in pietra all'uncinetto da un'infinità di minuscoli microrganismi equorei in milioni di anni e poi sollevatosi dalle profondità del mare a sparigliare le nuvole e i venti con la sua massa titanica; l'aurora che col suo celeste smorzacandela spenge le stelle ad una ad una, annunciando nello spettro dei suoi colori l'alba che infuoca il mare, che tracima dai monti allagando di luce le pianure; il cane che, a te che non hai mai avuto animali in casa, ti accoglie al tuo arrivo con delle feste sincere come mai, nemmeno da ospite lungamente atteso, hai ricevuto; l'inatteso stupore che stringe il respiro alla fine del Colombre di Buzzati, di una poesia di Prévert o di Tagore; il ponte dell'Alamillo di Calatrava, sul Guadalquivir, i perduti giardini pensili di Babilonia; lo scoprire, il realizzare la normalità conquistata di un'amicizia fraterna di cieca fiducia, di un amore che è materia, terra, cosa.
Questa è la meraviglia, qualità dell'occhio e del cuore prima che dell'oggetto, filo sotteso alla più ampia parte dell'Essere, sempre presente e di rado colta, capace di coinvolgere nelle sue realizzazioni una persona nella sua interezza, totalizzandola, e facendole intuire con complicità il suo posto nel mondo - meraviglia fra le meraviglie, atlante che sulle sole proprie spalle regge la consapevolezza della bellezza universale - seppur con breve memoria, presto tornando quella a suonare il clacson, a lamentarsi della vita, a mettersi a letto in fine di giornata col sangue marcio d'astio, ansia, rancore, ignara d'essere stata simile a un dio, ignara di ritornarlo, luminosa, ogni volta che si meraviglia.
Misericordia
Dio é misericordioso, é uno dei cardini del cristianesimo. Anche S.Francesco all'eremo in un momento in cui sentiva forte il senso di colpa per il suo passato ha avuto la visione di Dio che lo ha "perdonato "e gli ha detto "Io sono la misericordia, basta pensare al passato, il tuo ordine si espanderà, Io sono con te"-
Ho letto che la parola misericordia in ebraico significa utero materno, e Dio ci fa nascere e rinascere in continuazione perché siamo una umanitá di feriti e questo è un concetto che anche papà Francesco ha detto ai vescovi brasiliani "dovete ricordare che quella che avete davanti è una umanitá di feriti".
E mi viene in mente che anche il nostro Reiki quando accoglie e abbraccia usa misericordia in quanto fa rinascere, e noi ne abbiamo viste di rinascite, non é vero Antimo? È penso che non bisogna mai temere il buio, e il fondo del pozzo perché é solo il primo momento della risalita e poi ci sará la luce. Scusa ho buttato giú quello che mi girava nella testa in questo momento, é un po' disordinato, ma so che tu mi capisci.
Laura
Onore
o-nó-re
Reputazione, valore morale
dal latino: [honor] carica pubblica, stima, onore.
Pochi concetti sono evanescenti come quello di onore. Sembra che si sovrapponga alla reputazione, ma che contenga anche un valore intimo, indipendente dalla considerazione sociale - qualcosa di simile alla stima di sé. Nell'incertezza, questa parola si presta a deformazioni terrificanti.
Rileviamo come il concetto di onore che abbiamo per le mani ha una netta radice medievaleggiante - da cavaliere senza macchia che lava nel sangue gli affronti dei vili marrani. Dopotutto, il tono di chi fa valere in tribunale le proprie ragioni d'onore non è poi così diverso. L'etimo però ci porta lontano da questo onore.
Qualcuno forse ricorderà il "cursus honorum" romano, ossia la sequenza di cariche pubbliche via via più alte che il politico ricopriva: si trattava di un percorso tutto basato sulla capacità personale e sulla stima che il candidato era in grado di riscuotere nel servire lo Stato di carica in carica - con ruoli militari, amministrativi e giurisdizionali. L'[honor] era quindi insieme sacrificio, rispettabilità e premio, un percorso pubblico completo, sempre in un'ottica morale di dedizione alla Repubblica. L'onore è quindi qualcosa di meritato, di guadagnato, che si embrica con un percorso di responsabilità (a un tempo intimo e pubblico) e che non può essere invocato con leggerezza - pena il ridicolo.
Le parole da salvare sono queste: non perché sia a rischio la parola, che non vale più di un guscio, ma perché è a rischio il concetto che significa. Non si può permette che per onore si intenda una ligia appartenenza ad una regola di oppressione, come avviene per l'onore mafioso; non si può considerare l'onore come una losca affidabilità tenuta alta da chi ha le mani in pasta; e non ci si può nemmeno rifare all'onore tutto autoreferenziale dei guerrieri. L'onore deve essere il colore sensibile della morale, della solidarietà, di una vita coerente.
Perdonare
per-do-nà-re (io per-dó-no)
Rinunciare ad ogni vendetta e rivalsa
dal latino medievale: [perdonare] composto da [per] completamente e [donare] donare - originatosi cambiando il prefisso di [condonare].
Il perdono rileva molto nella sua veste teatrale - ed oggi, mediatica. Pare che funzioni come ogni altro dono, che serva a comprare o che sia una liberalità magnanima, più buona nella sua pubblicità che nella sua essenza, o che addirittura segua le regole di un gioco di potere: il mio perdono esercitato come una sopraffazione, un'elevazione, una via di superiorità. Per giunta, pornografie morali da giornalista microfonomunito come "Signora, ha perdonato l'assassino di suo figlio?" sbattono sotto i riflettori le intimità supreme dei pochi perdoni che davvero avrebbero valore.
Tutto questo rende opaco e distante il senso del perdono, un senso che invece è tutto interiore e molto circoscritto: non si perdona che per se stessi. Quando si è nella posizione di poter perdonare qualcuno la realtà è che non si ha un credito. Certi crediti creduti non esistono. Ma l'accettazione di un male inevitato, che lo lascia scorrere via per sempre, impedisce a questo stesso male di portarci altri frutti marci che ci fanno germinare in cuore i vermi del rancore, della vendetta, dell'ira - che ci annodano la vita. Perciò il perdono è il dono completo, supremo, così sottile che quasi non si dà né si riceve, che completa le azzoppature e le amputazioni del male - abbraccio di pochi istanti che poi ti lascia passare avanti.
Quando la pronunciamo, rendiamoci quindi conto del valore che questa normalissima parola esprime. E aggiungo un piccolo consiglio: se vogliamo ascoltare che cosa sia il perdono, ascoltiamo il "Contessa, perdono" del finale delle Nozze di Figaro. Mozart sapeva.
Rancore
ran-cò-re
dal latino: [rancor] rancido.
Il rancore, questo sentimento d'astio covato a lungo e tenacemente nel cuore, per la propria origine mette in luce una caratteristica dei sentimenti come lui inespressi: vanno a male, inacidiscono, marciscono; diventano rancidi, appunto. Va scelto con attenzione che cosa ospitare nel nostro cuore. La parola ci dice che tenersi dentro un rancore è come tenere in frigo qulcosa di marcito.
Rispetto
Rispetto
ri-spèt-to
Sentimento e atteggiamento che nasce dalla consapevolezza del valore di qualcosa o di qualcuno; osservanza; nella locuzione propositiva 'rispetto a', in confronto a qualcosa o qualcuno
dal latino: [respectus], da [respicere] guardare indietro, composto di [re-] indietro e [spicio] guardare.
Evitando le ambage del rispetto come osservanza e del 'rispetto a', miriamo al cuore.
Si chiede rispetto, si porta rispetto, si merita, si incute, si esprime, si manca di rispetto. Ma che cos'è questo rispetto, che affolla tanto i nostri discorsi, che ora si strascica fra sfumature stolidamente orgogliose, che ora incede fra altre di umiltà vibrante e nobile?
Il rispetto è il guardarsi indietro. Si procede, ed è avanti che si guarda, tutta avanti è la nostra attenzione. Ma il rispetto è quel momento di dubbio, di ricerca, di riflessione che ci ferma un attimo. Voltandoci, abbandonando un istante la prospettiva della nostra corsa, del nostro volo, ci si apre tutto ciò che sta dietro, ci si presenta tutto ciò che viene lasciato indietro, quell'enorme cattedrale di sentimento, di pensiero, di valore che non esiste fuori dalle considerazioni del rispetto.
Il rispetto non ha il tono assoluto della dignità, si confà male ad usi strepitosi, orgogliosi e cerimoniali. È un fenomeno intimo, di volizione spontanea. Non si può chiedere: il rispetto se lo chiedi si stronca. Chiedendo, richiamando si può suscitare stima, riguardo, consapevolezza, ma la cifra del rispetto sta in quell'istantanea, spontanea, intima volontà di voltarsi - e che solo per modo di dire si porta, si merita, si ha. Forse il rispetto si può soltanto 'fare'.
Chi camminando nel bosco si volta, e vede nell'insieme le proprie tracce, i profili degli alberi in controluce, il silenzioso vivere; chi al funerale sa quando sorridere, e sa dire col corpo ciò che le parole sembrano troppo ruvide per fare; chi pur nelle ombre di un'istituzione ne scorge la storia, il rigoglio di ideali, la rotta sempre migliorata che infinite mani le hanno impresso foggiando e reggendone il timone; questi sanno il rispetto.
Sacrificio
sa-cri-fì-cio
dal latino: [sacrificare], composto da [sacrum] azione sacra e [-ficium] per [facere] fare.
Abbiamo tutti l'immagine del cruento sacrificio sull'altare con lame affilatissime, urla, muggiti, sangue che chiazza il pavimento, il puzzo della carne che si consuma sul fuoco. E di certo se ci è richiesto un sacrificio pensiamo a privazioni, rinunce, mortificazioni - e questo rientra in una generalizzata perdita del senso del sacro.
Il sacrificio non porta il significato originale di dolore, crudeltà, dedizione sofferta. Quando si porta un mazzo di fiori alla persona amata, è un fragrante sacrificio di fiori freschi. Quando si offre un giro di bevute al pub, quello è un sacrificio in onore dei presenti. E così è un sacrificio aver cura meticolosa dell'ospite, esprimere i propri sentimenti con belle parole al momento giusto - quasi fossero formule di una liturgia antica e preziosa -, ed è un sacrificio elevato alla propria salute non chiedere il bis di dolce e rimettere la sigaretta nel pacchetto.
Il sacrificio è il compimento di un'azione sacra che, in quanto tale, celebra il sacro, celebra ciò che importa, celebra il valore che dà un senso a noi stessi e alla vita e non va trascurato, specie nella minutezza della quotidianità. Perché si tende a fare come diceva Goethe: "Siamo capaci di fare molti sacrifici nelle cose grandi, ma di rado siamo in grado di sacrificare le piccole".
Simbolo
sìm-bo-lo
dal greco: [syn] insieme [ballo] metto.
Quando pensiamo al simbolo ci viene in mente un'immagine particolarmente efficace, un'entità che com-porta un piccolo universo di senso, significato, che dalla superficie che appare permette di scendere in profondità vertiginose e archetipiche.
La sua funzione più vera ed originale è però più semplicemente, al di là di considerazioni a valle, quella di riunire. Il simbolo mette insieme linee di pensiero e di esperienza, idee, moti, sentimenti - una sintesi che funziona non in maniera esauriente in sé, ma come funziona una chiave: il simbolo è un'immagine che apre le porte di tutto ciò che lo compone, ad ogni livello.
Una luce bianca che significa e comprende tutti i colori.
Sincero
sin-cè-ro
secondo gli antichi dal latino: [sine] senza [cera] ossia puro come il miele senza cera. Più probabilmente composto di [sine] senza e [skar-] radice che indica spargere, inquinare. Quindi senza impurità.
Parola un po' affogata nella risacca dell'inflazionatissimo "ipocrita" - pare che debbano essere contrari. Invece no, o non propriamente.
La sincerità è la pulizia del cuore, quella che lo rende trasparente, adamantino - un'igiene che spesso si cura sono nei confronti degli altri, scordando di coltivare la sincerità verso se stessi, che pure è fondamentale.
Trasformazione
tras-for-ma-zió-ne
Mutazione, cambiamento
dal latino: [transformatio], da [transformare], composto di [trans] oltre, al di là, e [forma] aspetto.
Quello di trasformazione è un concetto comune, che però merita alcune osservazioni. Infatti ha un connotato specifico, rispetto al generico cambiamento: l'etimo ci parla di una trasformazione che è mutamento nella forma, cioè nell'aspetto esteriore. Certamente la forma è qualcosa di fondamentale per l'identità di un oggetto, che quindi riesce mutata, ma nella trasformazione la sostanza non cambia; o meglio, può essere soggetta a variazioni - ricombinazioni, aggiunte, perdite - ma ci deve essere un nocciolo, un filo che pur nel cambiamento resta lo stesso. È quindi il caso della trasformazione dei riciclaggi, il caso delle esperienze che trasformano le persone, e della stessa trasformazione delle parole: materialmente o storicamente la trasformazione non descrive uno iato, ma una continuità - per quanto proteiforme e fantasmagorica possa essere.
UBUNTU
[u-bùn-tu]
Nella filosofia dell'Africa sub-Sahariana, credenza in un legame di condivisione che unisce tutta l'umanità
voce bantu, traducibile letteralmente con "umanità", composta dalla radice [-ntu] umano e dal prefisso dei nomi astratti [ubu-].
Questo termine non giunge alle nostre orecchie solo perché è stato mutuato come nome per un sistema operativo di successo; lo abbiamo sentito nei discorsi di Mandela, del vescovo Tutu, ed è uno dei concetti fondanti di quel movimento di rinascimento che vuole far fiorire il continente africano al di sopra delle difficoltà attuali.
Come ogni concetto nato in una cultura diversa e lontana dalla nostra, non è di facile traduzione: se letteralmente significa "umanità", in pratica il significato è estremamente più articolato e complesso.
Si può sintetizzare l'ubuntu come la credenza filosofica in un nesso che connetta tutta l'umanità: ciò che siamo è frutto della vita di un'infinità di altre persone; ciascuno è un ologramma della società intera. Secondo una celebre interpretazione - che ha preso vita come un aforisma a sé - ubuntu significa che io sono poiché noi siamo.
Non è possibile esaurire qui questa trattazione; ma ciò che davanti a questo suggestivo spaccato di una diversa cultura può emergere è questo: seppure formalmente "ubuntu" e "umanità" abbiano lo stesso significato, la galassia di sensi che hanno acquistato è enormemente vasta e divergente; e la stessa difficoltà che troviamo nel cercare di comprendere un intraducibile concetto dell'Africa sub-Sahariana esiste per lo straniero che voglia comprendere il nostro concetto di "umanità".
La nostra responsabilità sta nel tentare di approfondire i concetti che sono nostri - il nostro contributo e la nostra chiave per l'elevazione umana - per poter essere in grado, un giorno, di spiegare (anche a noi stessi) i fondamenti del nostro pensiero, delle nostre credenze, della nostra identità.
Uroborico
[u-ro-bò-ri-co]
Relativo all'uroboro, che ha la forma di un uroboro
da [uroboro], animale simbolico dalla forma di serpente che si morde la coda, derivato dal greco: [ouroboros], composto di [oura] coda e [boros] che morde.
L'uroboro è un simbolo antico, che raffigura un serpente che si morde la coda, chiudendosi in un cerchio. Il significato che in alchimia e nelle antiche tradizioni magiche egizie è intuitivo: il cosmo che tutto comprende, che si rinnova sempre, in cui ogni parte è connessa con ogni altra in un ciclo eterno - ed anche i cicli delle successive raffinazioni che in alchimia portano alla creazione delle quintessenze.
Al di là del suo contesto originario, l'uroboro continua ad essere un simbolo molto eloquente: la grande creatura, come il drago o il serpente, che mangia sé stessa in un ciclo, è un'immagine che invita all'uso metaforico. Si potrebbe parlare dell'uroborismo di un sistema bancario o societario che si perpetua reinghiottendo ciò che distrae da fallimenti studiati; si potrebbe parlare di una cultura uroborica che per rinverdirsi divora le proprie radici; si potrebbe parlare di un amore uroborico - archetipico e completo - che si fonda su sé stesso, sempre identico e sempre nuovo.
Viandante
[vian-dàn-te]
Chi va per via, specie a piedi, fuori città e coprendo lunghe distanze
composto di [via] e [andante].
Non è raro che una parola sopravviva a ciò che descrive, ed è il caso del viandante. Ma i viaggiatori non mancano, i pellegrini nemmeno, e figuriamoci i turisti: in che cosa si distingueva il viandante?
Questo termine indica colui che, fuori dalle città, muove per lunghe distanze a piedi o con mezzi similmente lenti (e già questo, se prima era una necessità, oggi è un estro). Ma soprattutto, è una figura che viene solo colta nell'atto attuale dell'andare per via: propositi e scopi - come il commercio, la missione, il pellegrinaggio o il viaggio - non emergono in questo termine. Infatti resta una certa misura di mistero, nel viandante, che lo rende un personaggio fondamentale di storie e fiabe: bussa alla porta della casa isolata chiedendo riparo per la notte (e guai a negare ospitalità ), il suo incontro riserva intriganti sorprese, magari schiudendo qualche avventura.
Oggi ci si vuole muovere in fretta o comunque in maniera ben organizzata, si palesano i motivi dello spostamento e tutti vogliono sapere chi sei, da dove vieni e dove vai. Si vuole vedere la rete intera - e il nodo del viandante, che qui e ora va per la via, non si vede più.
[fonte: unaparolalgiorno.it]