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Ai tempi del Buddha, come del resto ai nostri, c’erano dei sovrani che governavano senza giustizia i loro stati. La gente era oppressa e sfruttata, torturata e perseguitata, soggetta a tasse eccessive e a punizioni crudeli. Il Buddha era profondamente toccato da tale disumanità. La Dhammapadaṭṭhakathā racconta che egli, per questo motivo, volse la sua attenzione al problema del buon governo. Le sue idee devono essere valutate rispetto al contesto sociale, economico e politico del suo tempo. Mostrò come un paese potesse diventare corrotto, degenerato e infelice qualora i suoi capi, cioè il re, i ministri e i funzionari, divenissero corrotti e ingiusti. Perché un paese sia felice deve avere un governo giusto. Il Buddha espose i principi di questo buon governo nella sua dottrina dei « Dieci doveri del re » (dasa-rāja-dhamma) , che si legge nei testi Jātaka.

Naturalmente l’antico termine «re» (rāja) dovrebbe essere sostituito oggi con il termine « governo ». Quindi i « Dieci doveri del re » si applicano oggi a tutti coloro che costituiscono il governo: capi di Stato, ministri, segretari di partito, deputati, funzionari, ecc.

  • Il primo dei « Dieci doveri del re » è la liberalità, la generosità, la carità (dāna). Il sovrano non deve essere avido né attaccato alla ricchezza e ai beni, ma ne deve disporre per il benessere del popolo.
  • Il secondo dovere è un’elevata fibra morale (sīla). Egli non deve distruggere la vita, ingannare, rubare e sfruttare il prossimo, commettere adulterio, dire il falso e bere bevande inebrianti. Ossia deve osservare almeno i Cinque precetti del laico.
  • Il terzo dovere è quello di sacrificare tutto per il bene del popolo (pariccāga). Deve essere pronto a sacrificare ogni comodità personale, nome e fama, e persino la sua stessa vita, nell’interesse del popolo.
  • Il quarto dovere è l’onestà e l’integrità (ajjava). Deve essere alieno dalla paura e dai favoritismi nell’esercizio delle sue funzioni, deve essere sincero nelle sue intenzioni e non deve ingannare il pubblico.
  • Il quinto dovere è essere gentile e affabile (maddava). Deve avere un temperamento socievole.
  • Il sesto dovere è di avere abitudini austere (tapa). Deve condurre una vita semplice e non indulgere nel lusso. Deve avere autocontrollo.
  • Il settimo dovere è di non provare odio, malizia, inimicizia (akkodha). Non deve portare rancore a nessuno.
  • L’ottavo dovere è non essere violento (avihiṃsā), che significa non solo che non deve far del male a nessuno, ma anche che deve sforzarsi di promuovere la pace evitando e prevenendo la guerra e tutto ciò che implichi violenza e distruzione della vita.
  • Il nono dovere è di avere pazienza, comprensione, tolleranza, indulgenza (khanti). Deve essere capace di sopportare le avversità, le difficoltà e gli insulti senza perdere le staffe.
  • Il decimo dovere è quello della non-opposizione, della non-ostruzione (avirodha) , ossia non si deve opporre alla volontà popolare, né ostacolare alcuna innovazione che migliori le condizioni sociali. In altre parole, deve governare in armonia con il suo popolo.

E' inutile dire quanto sarà felice un paese governato da uomini dotati di tali virtù. Ma non si tratta di un’utopia, perché nel passato ci sono stati dei re, come Aśoka in India, che hanno fondato i loro regni basandosi su queste idee.

E' una speranza e una consolazione, oggi, pensare che ci sia stato almeno un grande sovrano, celebre nella storia, che ha avuto il coraggio, la fiducia e l’idealismo di mettere in pratica questo insegnamento di non violenza, di pace e d’amore nell’amministrazione di un vasto impero, tanto negli affari interni che esteri: Aśoka, il grande imperatore buddhista dell’India (III secolo a.C.), «l’Amato dagli dèi », come veniva chiamato.

In principio seguì l’esempio del padre (Bindusāra) e del nonno (Candragupta) , e volle completare la conquista di tutta la penisola indiana. Invase e conquistò il Kalinga e lo annesse al suo impero. Molte centinaia di migliaia di uomini furono uccisi, feriti, torturati e fatti prigionieri in quella guerra. Ma in seguito, divenuto buddhista, cambiò, fu trasformato completamente dagli insegnamenti del Buddha. In uno dei suoi famosi editti incisi su roccia (Editto XIII, come viene ora chiamato) , il cui originale si può leggere tutt’oggi, l’imperatore, alludendo alla conquista del Kalinga, esprime pubblicamente il suo « pentimento », dicendo quanto gli sia « estremamente penoso » pensare a quella carneficina. Dichiara pubblicamente che non brandirà mai più la spada per una conquista ma che « desidera che tutti gli esseri abbiano sicurezza, dominio di sé, equanimità, gentilezza. E questa la vittoria che il re caro agli dèi considera la più importante: la vittoria della Pietà (dhammavijaya) ». Non solo rinuncia alla guerra per sé, ma esprime il desiderio « che i miei figli e i nipoti non pensino di fare nuove conquiste … e ricordino che la vittoria della Pietà vale per questo mondo e per l’altro ».

Questo è l’unico esempio nella storia dell’umanità in cui un conquistatore vittorioso, all’apice del potere, possedendo ancora una forza che gli avrebbe permesso di continuare le sue conquiste territoriali, rinuncia alla guerra e alla violenza per rivolgersi alla pace e alla non violenza.

E' una lezione per il mondo di oggi. Il sovrano di un vasto impero rinuncia pubblicamente alla guerra e alla violenza e abbraccia un messaggio di pace e di non violenza. Non vi sono testimonianze storiche che mostrino che alcun re confinante si sia avvantaggiato della pietà di Aśoka per attaccarlo con le armi o che ci siano state delle rivolte nell’impero durante la sua vita. La pace, al contrario, regnò in tutto il paese, e sembra che altre nazioni, al di fuori del suo dominio, abbiano accettato volentieri la sua guida benevola.

Walpola Rahula