Si potrebbe concepire una storia della paura attraverso i modi in cui, nei secoli, si ha avuto paura, modi che non sono stati sempre gli stessi.
Le rogazioni ad esempio, ovvero le antiche preghiere propiziatorie per le seminagioni, si concludevano con l'invocazione di liberare i supplici dalla folgore, dalla grandine, dalla tempesta, dalla peste, dalla fame e dalla guerra. In questa semplice formula viene quindi tratteggiata una sorta di catalogo delle paure. Si trattava di paure violente, selvatiche, intense, ma prevedibili e dunque arginabili, perché contro di loro si potevano sempre attuare delle contromisure.
Con l'avvento della contemporaneità, invece, sorgono delle paure che potremmo definire imprevedibili. Alle classiche paure individuali, sociali e politiche si vanno aggiungendo paure non catalogabili. Il predominio della tecnica, della scienza e dell'economia – insieme al tramonto delle ideologie e alla globalizzazione – ha generato una sorta di mitologia dell'infinità possibilità. Che è un volto della libertà, ma che si presenta in modo decisamente più ampio rispetto al vecchio tempo ciclico e dilatato. Questa ampiezza, questa pletora di possibilità di fatto genera angoscia.
L'angoscia è uno stato che nasce anche dalla gioia, o meglio dalla paura di perdere la gioia. La filosofia lega insieme paura e angoscia nel contesto della contemporaneità. Questo è lampante in Kierkegaard, in particolare in Timore e tremore e ne Il concetto dell'angoscia.
Addirittura, con la contemporaneità, si è cominciato ad avere paura della paura, come ben delineò un'affermazione di Roosevelt dopo la crisi del '29: “L'unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa”.